Associazione Culturale Aristocrazia Europea

mercoledì 3 febbraio 2016

I Walser italiani del Monte Rosa.



 
La parola walser deriva dal tedesco walliser, che significa abitante del cantone Vallese, in Svizzera, dove questa popolazione di origine germanica si insediò intorno all’VIII secolo. Le ondate migratorie successive che, grazie a condizioni climatiche particolarmente favorevoli, li portarono ad attraversare le Alpi e a insediarsi in Piemonte e Valle d’Aosta, si possono far risalire all’inizio del XIII secolo.
La lingua di questa popolazione è quindi di origine germanica e appartiene al gruppo dei dialetti alemanni dell’alto tedesco (o «altissimo alemanno»), diffuso nella parte più orientale della Svizzera. Nel corso dei secoli l’influenza delle parlate locali causò una serie di mutamenti, e gli idiomi walser si diversificarono a seconda delle zone di insediamento. La parlata di Gressoney è considerata la più arcaica, quella che ha subito minori contaminazioni, mentre quella di Formazza e Macugnaga ha risentito maggiormente dell’interazione con il vicino Vallese, e quella di Alagna, Rima e Rimella dell’interazione con l’italiano. Al di là delle varianti, gli idiomi «titzschu» o «titsch» – così la gente delle valli definisce la propria lingua - sono accomunati da alcune marcate caratteristiche tipiche delle lingue germaniche, quali la presenza della declinazione di sostantivi e aggettivi (come nel tedesco, che ha conservato i casi nominativo, genitivo e dativo), e dei tre generi, maschile, femminile e neutro. Se buona parte del vocabolario è di origine germanica, il titsch ha adottato parole dai dialetti italiani e dal francoprovenzale, specialmente per oggetti e idee della modernità.
Non sono molte le fonti letterarie. A partire dal XVIII secolo si trovano le prime testimonianze scritte, costituite da lettere di emigrati o documenti manoscritti da parroci. Le donne e gli anziani hanno tuttavia dato un enorme contributo a mantenere viva questa lingua, che si è tramandata oralmente di generazione in generazione, anche grazie all’usanza di intrattenere la famiglia riunita nel tepore della stube, con il racconto di un vasto repertorio di filastrocche e leggende nelle lunghe sere d’inverno.
Numerose iniziative vengono promosse per la tutela di questo patrimonio linguistico, per garantire la memoria storica e valorizzare il patrimonio culturale lasciato sul territorio dalla comunità walser: in Valsesia è stato creato per questo un polo museale dedicato alle tradizioni e alle attività contadine.
 
Esperti conoscitori della montagna, avvezzi ai climi rigidi, i walser trovarono nelle Alpi Pennine, Lepontine e Graie - che contano alcune delle maggiori vette e dei più alti valichi di tutta la catena - un ambiente ideale dove insediarsi. Ed è in questi territori montuosi, ancora oggi pressoché incontaminati, caratterizzati da piccole borgate, pascoli d'alta quota, boschi e ambienti rocciosi improduttivi, che questo antico idioma è ancora parlato dalle poche centinaia di persone che formano la comunità walser delle valli Ossola, Formazza, Sesia e Anzasca. La colonizzazione dei walser in questo territorio fu pacifica, data la natura climaticamente e geograficamente impervia e inospitale dei territori occupati. Non toglievano terra a nessuno insomma: andavano invece a dissodare e civilizzare ambienti mai abitati dall'uomo.
Il massiccio del Monte Rosa (4634 m), la seconda vetta delle Alpi, è centrale all'area di stanziamento delle popolazioni walser. Oggi lo vediamo ammantato di ghiacci perenni, tanto da sembrare, per la sua enorme estensione territoriale, una invalicabile barriera tra i due versanti alpini. Tuttavia, intorno al XIII secolo numerosi passi alpini, oggi di esclusivo interesse alpinistico, erano liberi dai ghiacci e percorribili non solo a piedi, ma anche con carri, bestiame e masserizie. È oggetto di dibattito tra gli studiosi quali fossero i percorsi transalpini che portarono piccoli gruppi di coloni walser a popolare questo comprensorio.  Due sono gli itinerari possibili attraverso il massiccio del Rosa: il colle del Lys (4248 m), in walser Lysjoch, tra la valle omonima in val d'Aosta e la Mattertal in Vallese, oppure il più facile ma lungo percorso attraverso il colle del Teodulo (3316 m), in walser Théoduljoch, tra la Mattertal e la Valtournenche, quindi il colle Superiore delle Cime Bianche (3106 m) e il colle della Bettaforca (2727 m), in walser Bättforko, tra la val d'Ayas e la valle del Lys. Valichi più accessibili mettevano poi in comunicazione queste valli con la vicina val Sesia e Anzasca. Più facili passi permettevano l'accesso alla val d'Ossola e alla val Formazza dalla valle del Ticino e dal Sempione.
Le ragioni della migrazione furono la crescita demografica che interessò tutta l'Europa in epoca altomedievale, oltre agli incentivi offerti dalle varie autorità territoriali a Sud delle Alpi. Gli ordini monastici e i conti di Biandrate - signori della Valsesia, con feudi nel Vallese - garantivano ridotti gravami fiscali e libertà personale a chi colonizzava questi territori, divenuti oltretutto interessanti grazie alla fase climatica calda. Le comunità walser erano portatrici di tecnologie (in agricoltura, forestazione, edilizia) assolutamente innovative e originali. Per questo i walser sono riusciti a sopravvivere anche alle mutate condizioni ambientali, a partire dal XIV secolo, quando la piccola era glaciale causò un avanzamento dei ghiacciai e la chiusura di molti passi alpini, oltre a una netta perdita di terre coltivabili e pascoli. I walser hanno mantenuto nei secoli una forte identità culturale e mostrato un solido attaccamento ai costumi, alle tradizioni e alla lingua. Le comunità walser sono tuttora dedite, oltre che al turismo, alle attività artigianali e agro-silvo-pastorali. Vantano eccellenze nell'artigianato del legno e nella produzione di formaggi d'alpeggio.
La comunità walser piemontese è suddivisa in dodici comuni tutti situati nelle province di Vercelli e del Verbano-Cusio-Ossola e mantiene legami saldi con le comunità walser che risiedono nella svizzera tedesca.
 
La casa walser rispecchia lo stile di vita di questa gente, abituata da sempre a convivere con l’isolamento e i rigori invernali. È infatti un microcosmo autosufficiente, che racchiudere in un corpo unico abitazione, fienile, stalla, falegnameria, filanda, caseificio. Testimonia allo stesso tempo dell’operosità e dell’abilità artigiana di questa popolazione. È una casa che deve quindi fornire protezione dal freddo, spazi dove poter confezionare vestiti per la famiglia, dove accumulare provviste, dove produrre formaggio e fare il pane (operazione che in passato veniva svolta un paio di volte l’anno), dove filare e tessere la canapa. È insomma costruita all’insegna della funzionalità, con i materiali del luogo (pietra e legno), utilizzati con estrema maestria. Il risultato è una costruzione di grande armonia, che si regge su un basamento in pietra a secco, con la parte sovrastante di legno di larice a incastro e un tetto costituito da lastre di pietra locale dette «piode», disposte a squama di pesce. Al piano seminterrato si trova la stalla (godu) e il soggiorno (stand), che sono ambienti comunicanti, quindi la cucina (firhus) e il locale adibito alla tessitura della canapa. L’arredamento, interamente in legno è essenziale: tavolo ribaltabile, panche. Non manca mai un fornetto murato in pietra ollare. Al piano rialzato, sopra la stalla, si trova la camera da letto, sobriamente arredata, con alcova, armadio a muro, cassapanca con la dote della sposa e culla. Al primo piano si trova il fienile dove si ripongono gli attrezzi agricoli, completamente circondato da un loggiato che, oltre a svolgere una funzione fondamentale – l’essicazione del fieno, della segale e della canapa – serviva anche da isolante.
La tipologia della casa walser in val Formazza si discosta dalle altre, richiamando quella del Vallese, in cui la parte abitativa è separata dagli altri fabbricati. Tratto distintivo dei granai sono i caratteristici funghi in pietra che sorreggono la struttura lignea isolandola così dall’umidità del terreno e dai roditori.
 
I walser sono cattolici e hanno in S. Teodulo e S. Nicola i loro santi protettori. Come per tutte le popolazioni isolate, la loro religiosità è ricca di credenze di origine pagana più antica. Molte sono le consuetudini che affondano le radici nel passato più arcaico. Sulla parte di tetto sovrastante l'ingresso veniva talvolta collocata una pietra bianca triangolare la cui funzione era di proteggere la casa dagli spiriti maligni. Altro elemento della religiosità sincretica che caratterizza questa popolazione è la «finestra dell'anima», che veniva dischiusa quando un membro della famiglia era in punto di morte, facilitando così l'anima del defunto nel suo percorso verso l'aldilà e prontamente richiusa subito dopo il decesso per impedire all'anima di fare rientro nella casa turbando la serenità dei vivi.
 
Parte fondamentale dell'economia walser era l'allevamento del bestiame. I prodotti caseari (latte, ricotta e formaggio) erano infatti la base della loro alimentazione, insieme alle patate e alla polenta, arrivate sulle Alpi in epoca moderna. Ancora oggi re della produzione casearia della val Formazza, il bettelmatt è un formaggio a pasta compatta, color oro, simile alla fontina, ma dal sapore delicato, lievemente erbaceo, inimitabile. Sappiamo che i primi colonizzatori che giunsero in Italia dai valichi alpini nel Medioevo producevano già questo formaggio, così pregiato da essere utilizzato come merce di scambio. Prodotto oggi in quantitativi molto limitati - circa 3000 forme all'anno - in una manciata di alpeggi dell'alta valle, situati fra 1800 e 2400 m, il Bettelmatt ha un periodo di maturazione che va da un minimo di 60 giorni fino a oltre un anno, trascorso il quale si ottiene la tipica forma del peso di una decina di chili. L'oro dei walser è pronto.
 
Quello che in origine era il tracht, un costume unico, comune a tutte le genti walser, è scomparso, spazzato via gradualmente con il trascorrere dei secoli dalla contaminazione con particolari tratti dai costumi delle popolazioni locali. L’abbigliamento walser si è così diversificato nei vari costumi caratteristici di ogni valle. Pur nella semplicità che li accomuna tutti, si può comunque tracciare una linea di demarcazione tra il costume da lavoro, essenzialmente funzionale e disadorno, confezionato con materiali grezzi e resistenti, come la mezzalana (un misto di lana e canapa) e quello festivo, riservato alle grandi occasioni, ornato da ricami, fili dorati e argentati e completato da scialli di seta. Tipico esempio di contaminazione del tracht con il costume delle popolazioni autoctone è il puncetto, che arricchisce i costumi femminili valsesiani. La sua origine è sconosciuta, anche se alcuni lo fanno risalire addirittura alle incursioni saracene sulle Alpi. La sua funzione originaria era quella di unire tra loro i lembi dei teli di canapa, ma ha assunto con il tempo un ruolo prettamente decorativo, per impreziosire lo scollo o le maniche della camicia. In origine, il puncetto che ornava il collo ne seguiva la linea ed era quindi arrotondato, in epoca più recente si è diffuso il davantino squadrato, con disegni sempre diversi, a testimoniare l’abile manualità delle puncettaie. Pochissimi gli elementi di decorazione – qualche ricamo sul panciotto o sulla papalina – mitigano il carattere austero del costume maschile. Completano l’abbigliamento gli scapin (schokka in walser), tipiche calzature valsesiane di tessuti riciclati, con suola di pezza cucita con corda di canapa. Se in origine erano neri o marrone, oggi vengono prodotti in vari colori e con decorazioni ricamate e nastri.

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